VERONICA NERI

Il lavoro di Veronica Neri (Sora, 1995) si dispiega nei temi della ricerca di senso e della caducità dell’esistenza attraverso una contaminazione di linguaggi, prediligendo l’uso di materiali in grado di registrare e mostrare i segni del tempo. La sua ricerca inizia con la sperimentazione pittorica e installativa di fiori in vari stadi di decomposizione (prelevati da rifiuti cimiteriali), e si sviluppa attraverso l’utilizzo di diverse tecniche, tra cui la pratica di seppellire e poi riesumare i supporti facendo agire la terra direttamente su di essi. Conseguenze delle caratteristiche stesse dei media impiegati, le opere, non fissate, mostrano e risentono dei segni del tempo e dell’atmosfera, cangianti sul medio e lungo termine per propria natura; esse stesse non sono che il punto di incontro tra la volontà di chi le crea, il materiale in via di separazione e il supporto prescelto.
Nel 2021 vince la XV edizione del Premio Nazionale delle Arti. Tra le sue ultime mostre: Cielo e terra sono margini, Cosmo, Roma, 2023; Vive! Atti di esistenza, Centro Studi Osvaldo Licini, Monte Vidon Corrado (Fm), 2023.

TITOLO PROGETTO PER SEMINARIASOGNINTERRA23
LA MIA VITA E’ ESITAZIONE PRIMA DELLA NASCITA

Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro?
In ciò che ci è preceduto risiedono le cause di ciò che siamo oggi e buona parte di ciò che determineremo per il futuro. Parafrasando Agamben in “Che cos’è il contemporaneo?”, è fondamentale rintracciare nel presente ciò che è arcaico e originario, individuare quali sono le forze che non hanno mai smesso di intervenire nel “divenire storico”. Solo così potremmo tentare di avere un’idea di cosa ci aspetterà dopo.

Quali sono gli elementi su cui vorresti/e lavorare ancora?
Più che concentrarmi sugli elementi, di sicuro ciò che mi sta interessando maggiormente adesso nel lavoro è la modalità. Sto lavorando e puntando sempre di più sull’aspetto procedurale del mio lavoro, di cui l’opera finale visibile al pubblico è risultato. Le mie tematiche sono le stesse dall’inizio della ricerca, e probabilmente lo saranno ancora per molto, ma ciò su cui sto riflettendo è il come trasmettere al meglio la parte “performativa” e strettamente privata che sta dietro al lavoro finale.

Raccontami di più dell’opera per Seminaria.
“La mia vita è esitazione prima della nascita” è una frase che mi ha folgorata dalla prima volta che l’ho letta sui Diari di Franz Kafka del 1922. L’ho utilizzata per dare una chiave di lettura su un ciclo di lavori che sto facendo dal 2020 ad oggi, di cui si fa metafora molto efficace seppure non completa. Protagonisti sono i fiori in via di decomposizione che da anni raccolgo dai rifiuti cimiteriali, elementi che simboleggiano di per sé una vanitas, ma che sono anche resti tra i più marginali del nostro mondo votato all’imperterrita perfezione e benessere. Nell’installazione per Seminaria sono protagonisti insieme ad un altro tipo di resti, quelli alimentari.
Ho pensato di accompagnare gli osservatori in un percorso discendente, che parte con una scansione ritmica di piatti che ospitano dei resti/cibo per gli animali del luogo che verranno reintegrati ogni giorno, per poi arrivare nel punto più basso, un luogo quasi “dimenticato” del paese, in cui saranno disposti i fiori da me raccolti nei cimiteri negli ultimi mesi, divisi in mazzi. Ogni mazzo avrà il suo posto nello spazio e sarà risultato di una mia passeggiata di raccolta nel cimitero. La tematica della divisione e reiterazione dello stesso elemento vuole porre l’accento sulla ripetizione dell’azione nel tempo.
Al movimento discendente non potrà che corrispondere un movimento ascendente, passando per il medesimo percorso. “C’è uno scopo, ma non un percorso; quello che noi chiamiamo cammino è esitazione.” spiega lo stesso Kafka.

Un progetto che non hai potuto realizzare, ma che ti piacerebbe fare?
È raro che mi metta a progettare cose difficilmente realizzabili, sono abituata a ragionare in base alle risorse che so di poter avere a disposizione evitando il più possibile gli sprechi. Di sicuro ho dei progetti di performance che mi piacerebbe poter realizzare prima o poi.

Le tue opere esemplificano lo scorrere del tempo, sottraendosi alla concezione di eterno e duraturo, da dove nasce questa necessità? E come ti poni nei confronti di questa insuperabile realtà (tempo)?
La necessità nasce dalla vita stessa. Martin Heidegger più o meno diceva che non c’è vita più autentica dell’essere-per-la-morte, tenere tutte le possibilità aperte ed avere come unica certezza solamente la nostra inevitabile fine. Ho sempre ravvisato che con il progresso tecnologico incalzante, in special modo nei campi della medicina e dell’estetica, tematiche come la sporcizia, il pericolo, la morte, la perdita escono sempre di più da ciò che viene ritenuto accettabile o degno di attenzione da parte della maggior parte della società. Ciò che vorrei fare con il mio lavoro è porre in evidenza questi temi, portarli almeno alla riflessione, dedicarmi a loro con dedizione, non solo per il pubblico che avrà a che fare con le mie opere ma anche per vivere in maniera autentica in prima persona. Il tempo passa, invecchiamo, ci ammaliamo, non sempre usciamo indenni dalle nostre vicissitudini; se non ci lavassimo periodicamente saremmo sempre sporchi, vittime del rinnovamento del nostro corpo che porta con sé un continuo ciclo di morte e vita. La materia, sia quella che ci compone, ma anche quella di cui sono fatte le piante o le cose, è in continuo mutamento, subisce continuamente acquisizioni e separazioni. In questa ottica nessuno è speciale e tutto è comune, livellato. Davanti al trascorrere del tempo siamo tutti fatti degli stessi materiali. E, notare bene, il mio lavoro parla della vita più che della morte, del lasciare andare ciò che possiamo solo illuderci di controllare.